Pagine

sabato 20 aprile 2013

GIANNI AMELIO - La fine del gioco




Intervistatore: pensa che 11 milioni di telespettatori ti vedranno, conosceranno i tuoi problemi, sapranno chi sei, dove vivi...
Bambino: Che me ne frega degli spettatori! Loro stanno a casa loro e io sto qui dove sono, tra un paio di giorni me ne torno dentro, voi ve ne andate, chi vi vede più, chi vi conosce...

La fine del gioco, 1970


















Ho sempre apprezzato il cinema di Gianni Amelio sebbene spesso manchi di quella "leggerezza" che amo ritrovare anche negli autori più impegnati. Mi piace il suo sguardo morale e la centralità che nelle sue opere hanno i rapporti umani, mi piacciono i suoi eroi marginali, di solito disadattati e fuori dalle dinamiche di potere, a volte bambini. Fra i tanti personaggi di questa varia umanità che il regista ci ha regalato ritroviamo il carabiniere de Il ladro di bambini le cui scelte dettate dalla semplicità di cuore lo mettono in conflitto con l'autorità che rappresenta; il ragazzo emigrato a nord di Così ridevano il cui legame con il fratello maggiore è tanto forte da sacrificare la sua giovinezza in prigione da innocente al posto suo; e ancora il padre che si ritrova a riallacciare i rapporti col figlio tetraplegico anni dopo averlo abbandonato (Le chiavi di casa).

Amelio inizia la sua carriera di regista negli anni 70 con la televisione. Fra le sue prime opere abbiamo:
La fine del gioco (1970), Il piccolo Archimede (1979) e I velieri (1983) che vista la loro difficile reperibilità proporrò qui su questo blog.
Tutti e tre i lavori sono legati al tema dell'infanzia, isola fragile di solitudine e creatività.


La fine del gioco

Un giornalista televisivo (Ugo Gregoretti) conduce un'inchiesta sulle condizioni dei  giovani ospiti di una casa di correzione del sud Italia. Dopo aver raccolto panoramiche dei luoghi dell'istituto, sceglie uno dei ragazzi del centro, Leonardo di 12 anni, per fare un'intervista. Qui la telecamera è distante e raccoglie da lontano le paure del piccolo di essere ripreso e le raccomandazioni del giornalista che lo invita a parlare in italiano corretto e senza pause, lo rassicura con i trucchi del mestiere, gli ripete la scaletta delle domande.
L'intervistatore e il ragazzino si incontreranno di nuovo sul treno diretto verso il paese materno di Leonardo al fine di per ultimare le riprese.
E in questo incontro il dodicenne calabrese, lontano dalla telecamera, dice le cose che in televisione non si possono dire e lo fà dapprima in dialetto, poi in un italiano difficoltoso, pieno di tentennamenti. E' la sua verità sul collegio e quando il giornalista prende in mano il registratore e lo sollecita a ripetere la storia appena raccontata, di nuovo la realtà si sottrae al tentativo di catturarla, Leonardo non ricorda, diventa sospettoso, si chiude.
E il film disvela tutto il suo carattere di riflessione meta-cinematografica, Amelio con un approccio finto-documentaristico si interroga sul metodo, sulle responsabilità e soprattutto sulla possibilità di fare televisione-verità.


Nessun commento:

Posta un commento